è stato un pittore italiano, tra i protagonisti dell’arte astratta del secondo dopoguerra, noto soprattutto per il suo originale linguaggio segnico, diventato un marchio distintivo nel panorama artistico internazionale.
Capogrossi si laurea in giurisprudenza nel 1922, ma ben presto abbandona la carriera legale per dedicarsi all’arte. Si forma artisticamente a Roma, frequentando lo studio del pittore Felice Carena e compiendo viaggi di studio a Parigi, dove entra in contatto con le avanguardie artistiche europee, in particolare con l’impressionismo e il post-impressionismo.
Negli anni ’30, Capogrossi partecipa alla Scuola Romana, un gruppo di artisti attivi nella capitale che si muoveva in un ambito figurativo ed espressionista. In questo periodo la sua pittura è ancora legata alla rappresentazione figurativa e alla tradizione italiana, seppur con una crescente tensione verso la semplificazione formale.
La vera svolta nella carriera di Capogrossi avviene nel secondo dopoguerra. Intorno al 1949, abbandona definitivamente la figurazione per abbracciare un linguaggio astratto-segnico molto personale. È in questo periodo che sviluppa il celebre “segno a pettine”, una forma ricorrente simile a una forchetta o a un ideogramma, che diventa elemento centrale delle sue composizioni. Questi segni, ripetuti e combinati in vari modi, danno vita a una nuova grammatica visiva, autonoma e universale.
Nel 1951, Capogrossi è tra i fondatori del Gruppo Origine, insieme a Mario Ballocco, Alberto Burri e Ettore Colla, con l’intento di promuovere un’arte astratta fondata su forme essenziali, lontana da ogni figurazione o decorativismo. Anche se il gruppo ha vita breve, l’esperienza è fondamentale per la definizione dell’identità artistica di Capogrossi.
A partire dagli anni ’50, Capogrossi riceve riconoscimenti sempre più importanti sia in Italia che all’estero. Partecipa più volte alla Biennale di Venezia (dal 1930 al 1968) e alla Documenta di Kassel (1955, 1959, 1964). Le sue opere vengono esposte nei maggiori musei e gallerie internazionali.
Nel 1954 rappresenta l’Italia alla Biennale di Venezia con una sala personale, ottenendo grande successo di pubblico e critica. Le sue composizioni segnico-astratte vengono viste come espressione di una nuova spiritualità e di una ricerca formale profonda.
Negli anni ’60 e fino alla sua morte nel 1972, Capogrossi continua a esplorare il suo universo segnico con coerenza e rigore. Il suo stile resta riconoscibile, pur evolvendosi in termini di composizione, colore e spazialità.
Oggi, Giuseppe Capogrossi è considerato uno dei maggiori protagonisti dell’arte astratta italiana del XX secolo. Le sue opere sono conservate in numerosi musei, tra cui il Museo del Novecento di Milano, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, il MoMA di New York, il Centre Pompidou di Parigi e altri ancora.
Il suo stile si fonda su un linguaggio visivo autonomo, fatto di segni ripetuti, quasi rituali, che si relazionano nello spazio in modo dinamico e armonico. Questi segni, pur essendo astratti, evocano significati arcaici, quasi primitivi, e creano una struttura formale che unisce rigore matematico e intuizione poetica.
Capogrossi ha influenzato numerosi artisti contemporanei grazie alla forza espressiva del suo linguaggio segnico.
Il suo “alfabeto visivo” è stato paragonato a forme di scrittura ancestrali o a sistemi simbolici universali.
Nel 2012 la Fondazione Capogrossi ha promosso una grande retrospettiva a Roma, per celebrare il quarantesimo anniversario della sua morte.